In questi giorni di emergenza e notizie spesso contrastanti, vi sono numerosi ambiti che, seppur coinvolgono in concreto numerose persone, non sono minimamente stati presi in considerazione dal legislatore.
Mi riferisco, fra gli altri, al problema connesso al pagamento delle rette degli asili e scuole per l’infanzia privati.
Trattasi di istituti che, di fatto, dal 23 febbraio u.s. hanno cessato di fornire servizi alle famiglie che, di conseguenza, si chiedono se debbano o meno continuare a pagare le rette scolastiche.
Ritengo che pochi temi pongano in contrasto il dato che è possibile ricavare dalla norma con quanto di fatto ed in concreto si verrebbe a determinare in un futuro prossimo ove, effettivamente, ciascuno di noi rispettasse alla lettera la legge.
Nello specifico le norme che devono essere considerate sono quelle relative all’impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1463 e ss c.c.) ovvero dell’eccessiva onerosità della prestazione (art 1467 e ss c.c.).
Il primo articolo citato riguarda l’ipotesi in cui una delle prestazioni dedotte in contratto non possa essere adempiuta meno in quanto impossibile da eseguirsi. L’impossibilità deve essere sopravvenuta (quindi successiva alla stipulazione del contratto) e non dipendere dalla volontà/condotta delle parti.
L’impossibilità può essere definitiva o temporanea; totale o parziale.
L’impossibilità temporanea della prestazione per fatto non imputabile al debitore è disciplinata dall’art 1256 c.c.. Dalla lettura di tale precetto normativo si apprende che, nel perdurare dell’impossibilità, nulla potrà essere eccepito al debitore per il ritardo nell’adempimento.
Ciò significa, quindi, che il contratto fra famiglia ed asilo rimane sospeso e che entrambi i contraenti nulla possono reciprocamente pretendere sino a quando la causa che ha dato origine all’impossibilità non venga a cessare.
Quando poi la causa dell’impossibilità verrà meno, ciascun contraente sarà tenuto a rispettare le obbligazioni assunte con il contratto.
Se poi l’impossibilità è parziale, l’altro contraente avrà diritto ad una proporzionale riduzione della prestazione da esso dovuta, ma ha diritto alla risoluzione del contratto se l’impossibilità anche solo parziale determini il venir meno, per la parte medesima, dell’interesse all’adempimento.
Pertanto, traducendo il contenuto della legge al caso concreto qui esaminato, se la scuola dovesse offrire un minore servizio (ad esempio didattica a distanza, consulenze per le famiglie, consulenze educative …) minore sarà il prezzo da richiedersi alle famiglie, fermo restando comunque il diritto di costoro di chiedere la risoluzione del contratto ove ritenessero che l’esecuzione parziale dell’attività svolta dall’asilo non sia di loro interesse.
Ove, di contro, l’impossibilità divenga definitiva, la legge stabilisce che le parti sono reciprocamente liberate dal rendere la propria prestazione e sarà necessario restituire quanto eventualmente una parte abbia già ricevuto. Ciò significa, in altri termini, che la scuola non potrebbe pretendere dalle famiglie il pagamento di un servizio che non viene reso e dovrebbe restituire quanto eventualmente percepito dopo l’intervenuta impossibilità.
Peraltro, trattandosi, nel caso specifico, di prestazioni ad esecuzione continuata, potrebbe anche essere opposta, da parte del debitore/famiglia, la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (art 1467 c.c.).
In altri termini le famiglie potrebbero sostenere che il pagamento dell’intera retta rispetto al minor servizio offerto (ad esempio “didattica a distanza” – mantenimento del posto per il futuro…..), o all’assenza di servizio, sia eccessivamente oneroso.
In tal caso, tuttavia, la legge prevede un rimedio a favore dell’altro contraente, ossia la possibilità di evitare l’eccezione di risoluzione del contratto offrendosi di modificare la controprestazione e riponendo il sinallagma contrattuale in posizione di equità (ad esempio, viene ridotto il prezzo della rata ad un valore equo rispetto al servizio offerto).
Ovviamente il concetto di “eccessiva onerosità” non è di facile individuazione e, in caso di degenerazione dei rapporti fra le parti, sarà lasciata al Giudice ogni valutazione del caso. Per la Giurisprudenza si parla di eccessiva onerosità quando l’evento abbia «determinato una sostanziale alterazione delle condizioni del negozio originariamente convenuto tra le parti e della riconducibilità di tale alterazione a circostanze assolutamente imprevedibili».
Nelle odierne circostanze, ritengo che entrambe le condizioni poste dalla norma si possano considerare avverate nel senso che la richiesta, per esempio, dell’intera retta a fronte delle circostanze imprevedibili che hanno determinato la sospensione di ogni attività, sia effettivamente eccessivamente onerosa.
Ciò premesso, in quest’ottica mi sembra di poter affermare che, dal contenuto delle disposizioni di legge, l’impossibilità possa considerarsi temporanea.
Se la scuola è in grado di offrire un servizio “a distanza” potremmo addirittura parlare di impossibilità temporanea e parziale e si potrebbe ipotizzare una riduzione della retta, fermo restando il diritto della famiglia di risolvere il contratto ove non fosse interessata all’esecuzione parziale della prestazione.
Ove la scuola, invece, non offra alcun tipo di servizio, si dovrebbe parlare di impossibilità temporanea della prestazione, con la conseguente sospensione del contratto sino al cessare delle condizioni che tale impossibilità hanno determinato.
La scuola quindi non potrà richiedere alcun pagamento e sarà tenuta alla restituzione di quanto eventualmente corrisposto per il mese di marzo 2020 e/o per successivi mesi in cui i bambini non frequenteranno l’asilo.
Analogo ragionamento vale per l’ipotesi in cui si consideri l’eccessiva onerosità della prestazione: a fronte di un servizio, pur minimo, offerto, la scuola potrebbe offrirsi di ridurre la retta e, in tal modo, riequilibrare il sinallagma contrattuale.
Ciò detto preme tuttavia svolgere alcune considerazioni su di un diverso piano forse meno tecnico ma certamente maggiormente rispondente alla realtà.
In particolare, deve essere preso in considerazione il dato numerico che, sino ad oggi, il servizio alle famiglie offerto dagli asili privati rappresenta circa il 70% dell’offerta complessiva in quanto, per lo meno nella provincia di Verona, nel settore, l’offerta pubblica rappresenta il 30% del mercato complessivo.
Il settore privato, quindi, rappresenta quindi la soluzione in massima parte di aiuto per le famiglie.
Ciò premesso devo ora essere considerato quale sia l’aiuto che lo stato ha riservato, nei recenti provvedimenti legislativi, a queste strutture: la possibilità di porre eventuali dipendenti in Cassa integrazione, di ottenere un credito d’imposta pari al 60% del valore del canone di locazione eventualmente pagato a marzo 2020 e la possibilità di differire il pagamento di imposte e contributi.
In altri termini, a fronte dell’impossibilità totale di svolgere pienamente l’attività di cura dei minori, queste strutture sono comunque tenute a far fronte a costi ed esborsi (canone di locazione, utenze, sanificazione degli ambienti…).
Eccepire quindi l’intervenuta risoluzione del contratto e pretendere la restituzione delle somme verste a titolo di retta per il periodo in cui non sono state svolte le attività di eduzione e cura dei bambini significa, di fatto, determinare la crisi di liquidità di tali strutture (spesso gestite nella forma si snc se non addirittura di impresa individuale).
In altre parole, perseguire la strada del diritto oggi (e quindi richiedere l’integrale restituzione del valore delle rette mensili pagate e/o non provvedere al pagamento di alcunché) potrebbe comportare, per domani, l’impossibilità, per gli asili privati, di poter riaprire i battenti e continuare la loro attività di cura ed educazione dei minori.